Il concetto di insidia nel diritto: la rilevanza giuridica del danno nascosto
Nel contesto giuridico, il termine insidia indica un pericolo nascosto, spesso definito come una condizione dannosa che non è facilmente visibile o prevedibile, e che quindi può causare lesioni o danni a persone o cose senza che vi sia una possibilità ragionevole di evitare il rischio. Il concetto di insidia è rilevante in diversi ambiti del diritto civile e penale, in particolare nel contesto della responsabilità civile, in cui rappresenta un elemento centrale nella valutazione della colpa e del risarcimento del danno.
Il ruolo dell’insidia nella responsabilità civile
Nella responsabilità civile, l’insidia viene spesso invocata quando si tratta di danni subiti da terzi in spazi pubblici o privati.
L’articolo 2051 cc, impone al custode l’obbligo di risarcire i danni arrecati a terzi dalla cosa sotto la sua sorveglianza, salvo che provi il caso fortuito, ovvero che l’evento non poteva essere in alcun modo previsto o, se possibile prevederlo, non poteva in alcun modo essere evitato. L’incidente è considerato evitabile quando con ogni probabilità non sarebbe accaduto usando l’ordinaria diligenza.
Il classico esempio è quello di un pedone che, camminando su un marciapiede, subisce una caduta causata da una buca non visibile o da un ostacolo che non poteva essere facilmente rilevato.
In questi casi, la giurisprudenza italiana ha elaborato il principio secondo cui la presenza di un’insidia può far sorgere l’obbligo risarcitorio per chi è responsabile della manutenzione dello spazio o della struttura.
Per essere giuridicamente rilevante, l’insidia deve possedere alcuni requisiti specifici:
- Occultamento del pericolo: la condizione dannosa deve essere tale da non risultare immediatamente visibile o percepibile.
- Non prevedibilità: la presenza del pericolo non deve essere facilmente prevedibile per la vittima, che si trova così impossibilitata ad evitarlo in modo tempestivo.
- Assenza di segnali di avviso: il soggetto responsabile dell’area deve aver omesso di adottare misure di segnalazione o di protezione adeguate per avvertire i terzi del pericolo.
Insidia e onere della prova
In caso di sinistro dovuto a insidia, la persona danneggiata deve provare che l’evento dannoso sia stato causato da una condizione occulta e imprevedibile. Il responsabile dell’area o della struttura può difendersi dimostrando che l’evento dannoso è stato causato da un comportamento imprudente del danneggiato, oppure provando di aver adottato tutte le misure necessarie per segnalare e proteggere contro il pericolo.
L’insidia nella giurisprudenza italiana
La Cassazione ha più volte ribadito che l’insidia, in quanto pericolo occulto, costituisce un elemento fondante della responsabilità per danni, richiedendo una tutela delle vittime anche in assenza di dolo o colpa grave del responsabile. In questa ottica, il concetto di insidia amplia la responsabilità civile e rappresenta una tutela per i cittadini, garantendo che i pericoli nascosti siano oggetto di attenzione e di misure preventive da parte di chi gestisce spazi pubblici o privati.
Con ordinanza n. 36901 del 16 dicembre 2022, la terza sezione civile della Corte di Cassazione ha ricordato che la responsabilità ex art. 2051 c.c. ha natura oggettiva e discende dall'accertamento del rapporto causale fra la cosa in custodia e il danno, salva la possibilità per il custode di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, ossia di un elemento esterno che valga ad elidere il nesso causale e che può essere costituito da un fatto naturale e dal fatto di un terzo o della stessa vittima (cfr., da ultimo, Cass. civ., sez. un. n. 20943/2022).
Questo concetto serve a proteggere i diritti delle persone, che si trovano così maggiormente tutelate da pericoli occulti, incentivando la cura e la manutenzione degli spazi comuni.
Avv. Massimo Neri & Dott.ssa Sara Del Dianda
RIFORMA CARTABIA (PENALE): IN PARTICOLARE: LA PROCEDIBILITÀ DEL REATO DI LESIONI VOLONTARIE (artt. 583, 585 c. p.)
La riforma ha modificato, tra le altre, la procedibilità del reato di lesioni personali.
Volendoci soffermare in questa sede sulle sole lesioni volontarie, è importante rimarcare che il legislatore ha mantenuto la tecnica di redazione previgente, costituita da rinvii ad altre norme, eccezioni e correttivi, in tal modo non contribuendo alla immediata percezione del nuovo regime, circostanza che rende utile questa breve annotazione.
Adesso la fattispecie è perseguibile a querela anche quando la durata della malattia supera i venti giorni (lesioni lievi o levissime).
Sarà invece sempre perseguibile d’ufficio:
quando il reato è commesso nei confronti di personale sanitario o socio-assistenziale (art. 61 n° 11 octies c. p.);
quando la malattia superi i quaranta giorni (lesioni gravi o gravissime, art. 583 c. p.);
quando la persona offesa sia incapace per età o infermità (se la malattia è sotto i venti giorni però, grazie all’inciso dell’ultimo comma, resta perseguibile a querela);
quando il fatto è stato commesso con l’uso di armi - anche improprie - o da persona travisata o da più persone riunite (art. 585 c. p.).
Un quadro sinottico tutt’altro che semplice.
RIFORMA CARTABIA (PENALE): NOVITÀ IN MATERIA DI ESCLUSIONE DELLA PUNIBILITÀ PER PARTICOLARE TENUITÀ DEL FATTO
L’applicabilità dell’istituto è stata ampliata sia quanto ai requisiti oggettivi, sia quanto a quelli soggettivi.
Se in precedenza il limite era stato stabilito in funzione della pena edittale massima, adesso la norma fa riferimento a quella minima.
Se pertanto, in base alla vecchia dizione, poteva accedervi solo l’imputato che aveva commesso un reato punibile con la pena edittale massima di cinque anni, adesso l’esclusione della punibilità sarà invocabile quando il reato sia punito con la pena edittale minima non superiore a due anni, indipendentemente dalla massima.
Il nuovo istituto - ferme le eccezioni stabilite espressamente - potrà così applicarsi a un più ampio novero di fattispecie, tra cui, ad esempio, la rapina tentata ed il furto nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 625, comma 1, c.p..
Inoltre il Giudice potrà valutare la tenuità del fatto anche in considerazione della condotta del reo susseguente al reato, circostanza che la giurisprudenza tendeva invece ad escludere (cfr. Corte di Cassazione, sentenza n. 20038 del 17 maggio 2022).
Da oggi saranno pertanto valorizzabili comportamenti quali la confessione e la sollecita definizione del risarcimento del danno da parte del reo.
RIFORMA CARTABIA (PENALE): LE MODIFICHE AL REGIME DI PROCEDIBILITÀ DEI REATI
Uno degli obiettivi della riforma è stato quello di conseguire “effetti deflattivi sul contenzioso giudiziario ed effetti positivi sulla durata complessiva dei procedimenti, nell’ottica di una maggiore efficienza del processo penale” (v. Dossier Camere del 7 settembre 2022). In questa ottica, il legislatore è intervenuto su una serie di reati che se, nel regime ante-riforma, erano perseguibili d’ufficio, adesso sono divenuti - con i dovuti correttivi - perseguibili a querela di parte.
Sono stati interessati i seguenti reati: lesioni personali (art. 582 c. p.), lesioni stradali (art. 590 bis c. p.), sequestro di persona (art. 605 c. p.), violenza privata (art. 610 c. p.), minaccia (art. 612 c. p.), violazione di domicilio (art. 614 c. p.), furto (art. 624 c. p.), danneggiamento (art. 635 c. p.), truffa (640 c. p.), frode informatica (art. 640 ter c. p.), disturbo delle occupazioni o del riposo delle persone (art. 659 c. p.), molestia o disturbo alle persone (art. 660 c. p.).
In considerazione di quanto sopra, i fatti commessi in data successiva all’entrata in vigore della riforma (31/12/2022) saranno punibili solo a seguito di querela.
Diversa la questione per i fatti già commessi a tale data, per i quali è stata prevista una disciplina transitoria (art. 85): qualora non sia ancora stato incardinato il procedimento penale, la parte offesa che già abbia avuto notizia del fatto costituente reato, avrà a disposizione tre mesi per proporre querela decorrenti dall’entrata in vigore della riforma; nel caso invece in cui esso sia già incardinato, la vittima del reato dovrà essere informata dall’autorità giudiziaria della facoltà di esercitare il proprio diritto di querela ed il termine trimestrale decorrerà dalla data in cui le è pervenuta detta informazione.
RIFORMA CARTABIA (PENALE): NOTIFICHE IN AMBITO PENALE E COMPITI DEL DIFENSORE
Come noto, la legge 150/2022 ha pesantemente riformato il regime delle notificazioni, con l’obiettivo dichiarato di «snellire e rendere più celeri i relativi adempimenti, ridurre le incombenze a carico degli uffici giudiziari e incrementare l’efficienza processuale, assicurando al contempo l’effettiva conoscenza da parte del destinatario delle stesse notifiche» (v. Dossier Camere del 7 settembre 2022).
Particolarmente significativo in questo contesto l’inciso contenuto nel nuovo art. 157 comma 8 bis c.p.p. in cui si introduce espressamente l’onere a carico dell’imputato di comunicare al proprio difensore ogni proprio recapito telefonico o indirizzo di posta elettronica (e successivi eventuali mutamenti) ove questi possa effettuare le comunicazioni, con espresso esonero di responsabilità a carico del professionista, qualora l’assistito ometta di farlo o lo faccia in ritardo.
Si tratta di una raccomandazione che ogni buon Avvocato già rivolgeva al proprio assistito, nell’esclusivo interesse di questi, e che oggi è stata normativamente consacrata.
E’ stato modificato anche l’art. 162 c.p.p., comma 4 bis, in materia di elezione di domicilio presso l’avvocato d’ufficio: se nella versione precedente essa non aveva effetto in mancanza di assenso esplicito da parte del difensore, oggi, viceversa, sarà compito di questi, se del caso, rifiutare la domiciliazione appena avuto conoscenza della stessa. E’ quindi lecito parlare di silenzio-assenso ogniqualvolta tale “non accettazione” non sia manifestata all’Autorità procedente.
Un preciso onere, in questo caso, è stato posto a carico dell’Avvocato, senza però che a ciò corrisponda la garanzia della effettiva conoscenza della notifica in capo al destinatario.
Clinica odontoiatrica chiude i battenti senza aver curato i propri pazienti ... è reato ?
Tutta Italia è al corrente delle gravi difficoltà incontrate dai pazienti di una nota catena di cliniche odontoiatriche con sedi in tutta la penisola che, dopo aver incassato l’intero corrispettivo in anticipo, ha chiuso i battenti ed è fallita, senza fornire la prestazione promessa o, nella migliore delle ipotesi, non fornendola integralmente.
Oltre al danno la beffa, visto che gli sfortunati clienti, se non hanno già pagato tutto di tasca loro, si trovano oggi tenuti a dover comunque pagare le rate ad una finanziaria.
Al di là dei diritti di natura civilistica in capo alle persone lese (di cui REGIALEX si è occupata), ci domandiamo se sia possibile ipotizzare anche una responsabilità di tipo penale.
Le fattispecie di reato che il fatto richiama subito alla mente sono quelle previste dagli artt. 640 e 641 c. p..
Certamente se il proponente la prestazione, avesse contratto, dissimulando il proprio stato di dissesto e con il chiaro intento di non adempiere, ci troveremmo di fronte ad un caso scolastico di insolvenza fraudolenta.
Sarebbe importante comprendere però se, al momento dell’accordo, la società si trovasse già in stato di decozione e se chi rappresentava l’impresa ne fosse stato al corrente, non essendo rilevante ai fini del perfezionamento del reato, la insolvenza sopravvenuta.
Il reato di truffa è ravvisabile invece ove il soggetto agente, usando artifizi o raggiri, induca in errore la parte offesa, arrecando alla stessa un danno al quale corrisponda pari profitto per l’autore.
Sarebbe quindi integrato il reato di cui all’art. 640 c. p. e non quello di cui al 641 c. p. ove lo stato di insolvenza non fosse stato semplicemente nascosto, ma fosse stato fatto oggetto di veri e propri artifizi o raggiri.
Quanto alla cd. truffa contrattuale in particolare, occorre evidenziare che la giurisprudenza richiede che l’autore abbia posto in essere un comportamento idoneo ad incidere in modo artificioso sul processo formativo della volontà della controparte: dovrà quindi essere sottoposta a particolare attenzione la condotta tenuta in concreto, al fine di ricercare un’eventuale messa in scena e/o un comportamento menzognero, finalizzati ad indurre il paziente a sottoscrivere un impegno che diversamente non avrebbe sottoscritto.
Una riflessione a parte invece va fatta sulla modalità di pagamento che avveniva molto frequentemente attraverso finanziarie convenzionate: apparentemente conveniente per il cliente, in grado di pagare “in comode rate”; certamente conveniente per la clinica, che così incassava, immediatamente e in anticipo rispetto alla prestazione promessa, l’intero corrispettivo, anche da parte dei soggetti con le risorse più limitate.
Infatti è proprio questa la modalità che si è rivelata fatale per il consumatore e che ha determinato la mancanza di difesa (l’eccezione di inadempimento), di fronte all’improvvisa serrata.
Ma, per quanto non si possa non prendere atto di una strategia commerciale “aggressiva”, sarebbe superficiale e frettoloso giungere a riconoscere per ciò stesso l’esistenza del dolo richiesto.
Rilevante infine il fatto che la chiusura imprevista abbia determinato, allo stato, anche l’impossibilità di consegna della cartella clinica, necessaria per continuare le cure da altro professionista.
Il mancato tempestivo rilascio della copia integra il delitto di cui all’art. 328 comma 1 c.p., in quanto consistente in un rifiuto di un atto pubblico la cui completa e regolare compilazione, sempre funzionale a ragioni di sanità, è rimessa in via definitiva e ufficiale al responsabile di reparto, in qualità di pubblico ufficiale.
Il principio è, in generale, pacificamente estensibile, mutatis mutandis, anche alla clinica privata.
Il caso è attualissimo e i fatti sono in continuo divenire …
Assegno di mantenimento a favore dei figli pagato in ritardo: è reato ? (art. 570 c. p.)
L’ex marito e padre di un minore, aveva corrisposto, spesso, in ritardo, l’assegno di mantenimento in favore del figlio minore, stabilito dal Tribunale in sede di separazione dei coniugi.
Sappiamo bene che il fatto è perseguibile solo nel caso in cui si facciano venire meno i “mezzi di sussistenza”, intendendosi per questi, i supporti economici atti a garantire il minimo indispensabile per la sopravvivenza (vitto, abitazione, istruzione e salute).
La giurisprudenza recentemente si è soffermata sulla rilevanza del ritardo ed è giunta alla conclusione secondo la quale solo un inadempimento serio e sufficientemente protratto nel tempo, al punto tale da incidere apprezzabilmente sulla disponibilità dei mezzi economici, rende la fattispecie sanzionabile anche penalmente.
Occorre cioè valutare in concreto la gravità del ritardo, intesa come l’attitudine oggettiva ad integrare la condizione che la norma tende ad evitare.
Proprio in considerazione di questo genere di valutazione, l’imputato è stato assolto.
Pausa caffè del dipendente pubblico al bar di fronte ... è reato ?
Con il termine “pausa breve” si fa riferimento, in linea di massima, a una modesta interruzione dall’attività lavorativa avente lo scopo di consentire al dipendente di reintegrare le energie psicofisiche.
Il vero “smart working” infatti non è quello svolto da casa per ragioni legate alla pandemia, ma quello posto in essere da chi, indipendentemente dalla sede lavorativa, esegua la prestazione dovuta massimizzando l’attenzione e la concentrazione e con essi i risultati.
Se questo è vero - e recenti studi lo confermano - il datore non dovrebbe badare al numero di ore trascorse dal dipendente alla scrivania, quanto piuttosto a far sì che le condizioni di lavoro dello stesso siano tali da garantirgli un buono stato di salute mentale e fisico.
Il legislatore, già nel 2008 (art. 175 del decreto legislativo n° 81) ha previsto espressamente per il videoterminalista il diritto di effettuare una pausa nell’ordine di 15 minuti ogni due ore di lavoro.
Non ha specificato tuttavia se questo breve intervallo possa svolgersi anche all’esterno della sede lavorativa o se debba consumarsi necessariamente all’interno di essa.
E’ proprio questa una delle contestazioni mosse a taluni dipendenti della Regione Toscana, rei per l’appunto, di essersi allontanati dal lavoro per il tempo necessario per recarsi al bar di fronte a consumare un caffè.
La questione, tuttora sub iudice, può contare su precedenti pronunce favorevoli all’imputato: in particolare il GUP di Como, nel 2017, ha emesso sentenza di non luogo a procedere avendo ritenuto che una condotta simile non sia in grado di offendere il bene giuridico che la norma incriminatrice (l’art. 55 quinquies D. Lgs 165/2001), tende a tutelare e consistente nella efficienza della pubblica amministrazione.
Nel caso specifico della Regione Toscana, ulteriori elementi depongono a favore degli imputati, atteso che la decisione n° 24 del 1/7/2019 di quell’ente, rivela che "la breve sospensione dell’attività rivolta, prevalentemente, alla consumazione di un caffè o ad usufruire di un ristoro, costituiva “prassi tollerata”.
Come detto, il procedimento è tuttora in corso.